Quando un uomo non riconosce la figlia è un codardo o c’è altro? – La storia di Papà Grey

Nel Bar Papà si vedono tante situazioni, alcune normali, alcune assurde, altre indifferenti.

Ma tra le tante, c’è una storia che non si vede ma che vorrei tanto conoscere.

In realtà sono due, che si intrecciano ma che fisicamente non si toccano.

C’è una famiglia che viene al bar quasi tutti i giorni, padre, madre e figlio grande con telefono piccolo in mano.

Vengono e si siedono in un tavolino in fondo.

Prendono sempre le stesse cose: lui caffè lungo e cornetto, lei cappuccino con latte di soia e cornetto integrale al miele, il ragazzo solo caffè normale e acqua.

Entra sempre prima lui, controlla la sala come se potesse esserci qualcuno e poi fa entrare la famiglia.

Se non fosse per questi piccoli elementi, sarebbe una famiglia normale.

Poi c’è un’altra storia.

Ogni tanto viene una ragazza a prendere il latte.

Ne prende tanto, per lei e per i suoi due gatti.

È sempre vestita di nero, sia in estate che in inverno, non c’è stagione che le faccia cambiare colore.

Se ci si ferma alla prima occhiata ci si trova davanti una bella darkettona tatuata, schiva e riservata, che vuole stare per i fatti suoi.

Se ci si addentra in quegli occhi, si vede un universo infinito di mondi che si rincorrono, di stelle che esplodono e di buchi neri che risucchiano.

E per tanto tempo ho pensato che quei buchi neri avessero attirato l’orbita gravitazionale della famiglia al tavolo in fondo.

O meglio ancora, del pianeta papà.

Quando entra la ragazza, parte la danza del sistema solare e tutto ruota intorno al bancone, unico sole in mezzo al mare di buio. La via lattea si mischia al caffè, la ragazza si avvicina al frigo, il papà le ruota intorno come uno squalo con la preda, la mamma a sua volta gira intorno al papà e il figlio con il cellulare in mano orbita senza una meta non capendo esattamente cosa fare, ma risucchiato nel vortice dei giri, senza però staccare gli occhi dallo schermo.

A volte anche io mi sento così preso da dover ruotare su me stesso, unico perno di un quadro troppo grande per essere compreso facilmente.

Poi la ragazza se ne va e tutto torna normale, ognuno al proprio posto a finire la sua colazione, senza una parola, senza dire nulla di quanto accaduto.

Tranne un giorno.

Quel giorno in cui tutti i pianeti si allineano e si mettono uno davanti all’altro, come in fila alla posta in attesa di un pacco regalo.

Da sempre l’uomo ha creduto che in quei giorni tutto potesse succedere, anche che una routine consolidata da una vita si interrompesse per la rottura di un bicchiere.

“Accidenti, mi sono sporcata tutta!”

Il cappuccino di soia ha una particolarità: è sicuramente più leggero ma macchia molto di più.

“Vai a lavarti in bagno”

“Per poi uscire tutta bagnata? Non ci penso proprio. Io vi aspetto a casa.”
“Mamma vengo con te, così faccio una telefonata”
“Ok, io resto a fare colazione, ci vediamo a casa”

E sbuffante la donna esce dal bar, seguita dal figlio con il telefono in mano.

Ed è in quel momento che tutto si allinea e che finalmente l’uomo trova il coraggio, il tempo e il modo per avvicinarsi al bancone e parlare.

“Mi dispiace per il bicchiere”

“Ma non si preoccupi, mi dispiace per il vestito della signora”

“Ne ha talmente tanti che fa prima a buttarlo. Se la smettesse di lamentarsi ogni giorno”

Si ferma a guardarmi, come se aspettasse solo un La per continuare la sua arringa.

“La”

“Come?”
“No, scusi, pensavo ad alta voce. Chiedevo: come mai si lamenta sempre?”

“Perchè non le va bene nulla, perchè mi punta il dito contro ogni cosa, non riesco a dire o fare un gesto senza sentire la sua presenza costante e continua addosso.”
“Ah. Capisco.”
No, non capivo, ma cercavo un minimo di empatia per un uomo che non mi dava un minimo di fiducia. Non so perchè ma sentivo una energia non proprio positiva da quelle parole. Un fondo di cattiveria nascosta, sopita, che è tipica delle acque chete, come diceva mia nonna.

“Forse perchè sa che l’ho tradita”
“Ah.”

Pausa.

Lunga.

Imbarazzante.

Come si continua un discorso del genere? Come si fa a parlare di un fatto così personale e intimo senza neanche una birra in mano? Ma era decisamente troppo presto per bere.

“Beh? Non dice niente?”

“La”

“Ancora?”
“Scusi. Continui. La ascolto”

“L’ho tradita e qui intorno lo sanno tutti. Lo sa anche lei, ma fa finta di non saperlo. O meglio non me lo dice in faccia ma agisce come la merda che sono. Io non riesco ad andare avanti così, ma non so come fare per uscire da questa gabbia dorata. Oddio, neanche troppo dorata, si sta arrugginendo, ma ormai l’ho costruita e che diranno gli altri? Come potrò girare per la città e guardare in faccia le persone senza sentirmi il loro giudizio addosso?”
Deve essere difficile vivere una vita che non è la propria, essere rinchiuso in un mondo che non ci appartiene, in un corpo che non è il nostro, anche se le scelte che abbiamo fatto ci hanno portato qui. Le abbiamo fatte noi, nessuno ci ha costretto.

Nessuno?

Oppure era tutto calcolato?

Non si sfugge al destino, ma peggio ancora non si sfugge alla paura di noi stessi.

“E poi c’è lei”

Queste parole frenano il movimento dei miei pensieri, non mi aspettavo questa complicazione nella trama.

“Lei chi?”
“La ragazza vestita di nero”

Le rette parallele si incontrano, i pianeti si allineano e creano una eclissi totale.

E si sa, quando c’è buio tutto prende una forma diversa, anche i pensieri più strani.

“E’ lei la sua amante?”
Chiedo con un misto di paura e repulsione.

Potrebbe essere sua figlia, è decisamente troppo giovane.

Lui mi guarda come se gli avessi dato un pugno in un occhio.

“E’ decisamente troppo giovane!”
Ecco, su questo punto siamo d’accordo.

“E’ mia figlia”
Su questo un po’ meno.

“Come sua figlia?”
“Si, mia figlia. Ma non nella forma, diciamo, convenzionale. Lei è figlia della mia amante”

Ho sempre amato gli intrecci ma qui si sfiora la soap opera.

“E chi lo sa?”
“Tutti lo sanno. Anche lei lo sa.”
“E allora?”
“E allora niente. Tutti sanno ma tutti fanno finta di niente.”
“Vuol dire che non l’ha riconosciuta?”
Silenzio.

Altro vuoto.

Altra voglia di bere.

“No.”
Mi sale dai piedi un senso di calore, un fiume in piena che arriva fino alle mani e che si pianta sul mio viso, rosso di dolore e di rabbia.

“Non l’hai riconosciuta?”
Il passaggio al tu è obbligatorio in questi casi.

“Come potevo? Come facevo ad abbandonare quel che avevo e vivere con chi? Con una donna che si, mi dava aria ma che non poteva darmi la sicurezza di un futuro?”
Non voglio giudicare, non voglio prendere parte, non voglio continuare ad ascoltare.

“Esci dal mio bar”

“Ma…”
“Prima di fare una scenata in strada, una di quelle di cui si parlerà per anni e anni, ti conviene uscire da questo posto. Per una tua ignavia, per una tua codardia hai condannato una ragazza a restare senza padre, a sentirsi non voluta da chi l’ha generata. Ti sei mai chiesto come può sentirsi lei? Glielo hai mai chiesto? Lei ti vede tutti i giorni e tu non le hai mai rivolto la parola. Magari aspettava solo un ciao, un come stai. Le hai negato la possibilità di fidarsi del mondo. Come può adesso credere che qualcuno, uomo o donna che sia, non sia sempre pronto a cacciarla, a fregarla, ad abbandonarla? Ci hai pensato? Hai minimamente pensato, tra i tuoi problemucci di facciata a quanto male puoi averle fatto?”
Questa volta il silenzio è assordante.

Fa male alle orecchie.

Fanno male le parole, schioccate come pugni allo stomaco.

Fanno male i pensieri, che creano immagini devastanti.

Come una supernova che esplode distruggendo tutto quello che c’è intorno, così il mio monologo arriva dritto in faccia e cancella ogni molecola dell’uomo che c’era.

Non parla più.

Si gira lentamente ed esce, più pesante di prima, più curvo di prima.

Apre la porta e se la trova davanti.

Occhi truccati per nascondere i ricordi.

Corpo fasciato per nascondere i segni.

Bocca chiusa per nascondere le parole.

Si guardano.

Due pianeti che si scontrano.

L’uno serve all’altro per non uscire fuori dalla sua orbita, per non perdersi completamente nel vasto universo solitario.

E poi il big bang.

“Ciao”

Dice lui.

Lei si ferma, come prima di una forte esplosione tutto sembra calmo e tranquillo.

“Come stai?”

Mi giro, vado in magazzino a cercare qualcosa, li lascio da soli.

Magari non cambierà nulla, magari non servirà a niente, ma ogni piccolo passo che facciamo può essere un big bang.

Prima del big bang non c’era nulla, non esisteva lo spazio e il tempo.

Ora tutto si sta per formare, l’universo sta per muovere i suoi primi passi e la stanza orbita intorno ai due pianeti che si fondono e tornano ad essere un unico grande sistema.

E io posso solo dire di aver assistito all’inizio della vita.

By |2020-06-01T08:55:31+02:00Giugno 1st, 2020|Blog, storie di papà|1 Commento

Un commento

  1. elisabetta Ottobre 23, 2020 al 2:22 am - Rispondi

    Una storia bellissima, vera… una storia che esiste da sempre silenziosa e tu le hai dato voce. Grazie

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